Disappeared Icons
Cosa scatta nella mente di un artista quando improvvisamente, dopo anni di lavoro lungo un solco ben tracciato e di successo, cambia cifra compositiva? Se già è difficile a un occhio estraneo seguire la logica di una ricerca che ancor prima che artistica è elaborazione del sé, risulta pressoché impossibile analizzare correttamente le motivazioni di scelte che sono lo specchio di vissuti personali. Non ci resta dunque che la via più onesta: seguirne l’evoluzione formale e contenutistica, guardare con gli occhi e sentire con il cuore…Ma procediamo con ordine.
Sakurai nasce a Hiroshima e questo, come più volte evidenziato dalla critica, è una sorta di imprinting, un marchio di dolore nella carne che mai si esaurirà, di generazione in generazione. Da giapponese poi, se pur giovane, ha connaturata la saggezza orientale e tutto il metodo di una costruzione del reale che avviene lenta e a capo chino nel rispetto del Tempo. Esistono in giapponese varie parole per indicare il tempo: ad esempio aida è il mentre, il periodo in cui viene svolta un’azione, la retta che congiunge partenza e arrivo, jikan è l’orario, il momento puntuale, forse l’attimo… Non essendo esperta in lingue orientali non mi permetto di dissertare sulla differenza semantica, complicata dal sistema dei kanji/ideogrammi, ma chiaramente l’esistenza di vari termini lascia intravedere una più complessa concezione del tempo, così come fu per i greci. La lingua greca distingueva infatti tra chronos il tempo nella storia, quello degli uomini, l’oggi e il domani, l’aion le ere che ciclicamente si ripresentano e kairos l’imprevisto, il deus ex machina, la svolta improvvisa, quello sliding doors che tutto può cambiare in un istante. Il pragmatismo latino ci ha lasciato in eredità un più asciutto tempus.
Perché questa digressione? Perché il giapponese ha un termine bellissimo che probabilmente tutto riassume: il prima e il dopo, il punto e la linea, la terra e il cielo. Nankurunaisa: “con il tempo si sistema tutto”. Non è fatalistica rassegnazione ma una complessa riflessione sul Tempo che apre alle necessarie dinamiche dell’esistenza. Ecco: nella nuova serie di lavori, esposti per la prima volta al pubblico italiano, Sakurai pare aver acquisito questa tranquillità. Non nascondo di essere stata inizialmente spiazzata a una prima visione. L’immediata suggestione provata è stata quella di trovarmi di fronte a una o più mancanze: la scomparsa di colori in dialogo fitto e sapido, l’abbandono di ritmi sostenuti e sincopati, di quegli ottimismi che con la maturità cedono il passo alla consapevolezza. Nasce Sakurai come allievo della lezione Gutai che al gesto irruente dell’action painting unisce l’ascolto della materia. L’attenzione per la materia è la partenza del lavoro del nostro: molte tele delle sue opere sono preparate con la tecnica dello shibori, regalando dunque una doppia chiave di lettura a quello che da subito è stato etichettato come jap pop. La tela viene ritualmente immersa ad assorbire lentamente e naturalmente un colore poi ricoperto da quello prodotto dall’artificio dell’artista: nella sua stessa preparazione essa mette in dialogo oriente e occidente raccontando in maniera diversa l’oggi con la storia. Nascono così i Love pool, esplosioni atomiche di colore, dove piogge che furono radioattive cadono a terra non generando morte e devastazione ma raccogliendosi in pozze d’amore. Nei successivi United Colors Sakurai passa a interpretare il colore in organica simbiosi con un altro elemento costitutivo della mitologia del pop: il segno. La forte reiterazione del segno ha antecedenti illustri, senza scomodare il solito Warhol, anche nella tradizione nipponica, da Murakami a Kusama e contribuisce a rafforzare quello che è il concetto di icona, su cui torneremo un poco più avanti… Per questo ciclo di lavori parlo semplicemente di segno perché pur facendo una ricognizione chiara su alcuni oggetti della tradizione occidentale, Sakurai li traccia e li ripete lasciandone solo l’impronta in un colore che apparentemente si prende tutta la scena. Vediamoli questi oggetti: sono il bottone, simbolo della moda (cui Sakurai si è prestato in molte partecipazioni), forchetta e cucchiaio, il savoir vivre della cultura italiana, da lui di certo compresa e ammirata avendo scelto di ultimare la propria formazione artistica proprio all’Accademia Albertina di Torino, e la croce, vessillo potente della cristianità e archetipo universale del dolore… Quanta ambivalenza dietro un colore che è gioia per gli occhi! Lo sarà ancora di più nei toni candy dei Delicious colors in cui l’oggetto, o meglio la sua impronta, sembra annegare e quasi scomparire sotto trasparenze viniliche.
Poi improvvisamente dopo tutta l’esuberanza di colore cui ci ha abituato, Sakurai sembra scegliere il silenzio: non riempie più la tela, usa un colore per volta e reiterando in esso il simbolo lo abbandona nel silenzio a un respiro diverso. È quello che in Giappone si dice Ma, lo spazio, l’intervallo, la pausa tra due elementi strutturali che ne potenzia l’estetica e le possibilità semeiotiche ma soprattutto dà senso al vuoto. Ecco perché vediamo apparire in queste composizioni, anche sotto forma di apparentemente involute colature, il bianco, sospensione necessaria e respiro vitale perché le cose accadano: Nankurunaisa. Paradossalmente il colore bianco diviene esso stesso simbolo, archetipo di un vuoto che non è privazione ma condizione ontologica del pieno, a che esso possa manifestarsi nei fenomeni e nelle cose. Una via tutta orientale alla dialettica kantiana tra noumenon e phenomenon.
Nudo e potente, straniante e dissonante il segno/simbolo finalmente diventa icona, sia esso oggetto o colore, spogliato della continua alternanza di toni.
Si impone adesso una breve digressione sul concetto di icona, giacché la relazione eidos-eikon, idea-forma è “base” imprescindibile d’ogni agire estetico. L’eidos è l’immagine mentale, la forma ideale, connotante l’essere nella sua essenza. L’eikon è l’immagine quasi fisica, seppur figurata, corrispondente al proprio modello, ha potere semplicemente oggettuale e fattuale. In altre parole in semiologia l’icona è un segno in affinità di forma con l’oggetto che deve denotare, ne è copia reale mentre l’eidos è il simulacro rappresentazione dell’idea. Sino alla metà del Novecento il modello epistemologico della pittura fu l’eidos: ontologicamente è impossibile pensare senza di esso poiché causa all’essere della sua essenza. Fu proprio la Pop Art con Warhol a riunire questi due piani di rappresentazione dell’immagine, integrandoli a livello epistemologico, trasformando la forza dell’icona da oggettuale a simbolica e regalando all’icona il potere “magico” e demiurgico della rivelazione.
Una sottile operazione concettuale che bene riesce a Sakurai nei Symbols. E questo grazie proprio all’essenzialità della narrazione, all’uso abbiamo detto di un singolo colore e del bianco, al decidere di concentrare il segno/icona/simbolo in una parte specifica della tela, senza alcun horror vacui ma lasciando alla materia il suo respiro. Come pare lontana l’esuberanza dei cicli precedenti, eppure propedeutica alla ricerca attuale.
Ecco perché mi piace parlare per questi lavori di disappeared icons, icone celate invero più che scomparse, pronte a nascondersi per svelare, sommesse e sussurrate. È più lungo infatti il percorso che lo spettatore dovrà fare per togliere il velo, per orientarsi e capire se abbandonarsi al ritmo della ripetizione del segno, subire la fascinazione del colore “puro” o domandarsi quale messaggio rechi con sé questo simbolo. E poiché il metodo è nel DNA orientale, qui Sakurai ha scelto per il momento un unico simbolo, la stella. Non ho ancora chiesto a Shinya quale ne sia il motivo, ma vedendola nel rosso ho pensato a una folle crasi tra bandiere (le stars and stripes della bandiera statunitense e il rosso della Cina) e dunque alla critica a opposti e deteriori imperi e capitalismi… Nel blu profondo ho immaginato la speranza in un universo che tutto vede e in cui siamo lontani puntini, sognando l’oltre… Il giallo mi ha trasportato nell’ottimismo pazzo del pop, per poi cadere trascinata dal nero negli inconsci abissi del sé … Le stelle sono in alto. E lontane.
Allo spettatore non resta che immaginare vie diverse.
Raffaella A. Caruso