La ripetizione astratta di Shinya Sakurai come rappresentazione simbolica del mondo
di Alessandro Riva
Qual è, oggi, la forma del mondo? O, per meglio dire: qual è la rappresentazione più fedele della forma del mondo? Domanda non priva di trabocchetti e di cortocircuiti ideologici e concettuali. È la ridondanza di immagini che costantemente (in ogni istante del nostro tempo) ci getta addosso la rete telematica, o forse la fotografia di una megalopoli, caotica e meticcia, vista dall’alto, o ancora la griglia astratta di un qualsiasi circuito elettronico? O magari la sagoma stilizzata di una porzione di terra vista da Google Maps, o, ancora, quella di un uomo – al pari di quello dipinto esattamente duecento anni fa da Caspar David Friedric – che si staglia, solitario, in cima a una montagna, sgomento di fronte all’immensa grandiosità della natura? Difficile dirlo. Certo è che, nel momento di maggiore e più intensa proliferazione di immagini, resa possibile dall’incredibile accelerazione dello sviluppo delle tecnologie informatiche, il concetto stesso di “rappresentazione” ha via via cominciato a vacillare, a rarefarsi sotto il nostro stesso sguardo.
Non è dunque un caso o una fatalità che in Occidente, e in Italia con particolare intensità, da almeno una ventina d’anni la pittura aniconica abbia ripreso nuovo slancio, a discapito di un lavoro più dichiaratamente figurativo, a seguito di una certa stanchezza verso le forme di rappresentazione del reale che tendevano inevitabilmente a tradursi in “genere”: sia nella rilettura della tradizione del Novecento, sia in una pittura di figurazione con tendenze informali che, nella loro ripetitività, rischiavano spesso di sfiorare un virtuosismo un po’ stantio, sia in forme di pittura di origine fotografica o mediale, che, nel loro carattere di gregarietà verso le forme digitali o tecnologiche, finivano fatalmente per apparire anzitempo datate. In questo quadro, diversi artisti hanno (ri)cominciato a lavorare con materiali, tecniche, linguaggi spesso originali o ripescati da tradizioni artigianali o extra-pittoriche, che prescindessero completamente dal problema della rappresentazione.
È necessario, sembravano infatti chiedersi molti artisti occidentali in questo complesso scorcio di presente improvvisamente trasformatosi in un futuro degno di un film di fantascienza, rappresentare il mondo, o non è meglio, semplicemente, evocarlo, vuoi per via metaforica, poetica, romanzata, simbolica, ermetica o spirituale? Forse, a voler ben guardare, una domanda non tanto diversa da questa è alla base di tutto il lavoro di Shinya Sakurai, artista giapponese da tempo naturalizzatosi in Italia, che, come altri suoi compagni di strada, ha per l’appunto deciso di lasciare da parte il problema della rappresentazione per sostituirlo con quello di un ragionamento sulla forma, sul simulacro dietro cui si cela il reale, e sui diversi punti di vista da cui è possibile guardare il mondo – un mondo improvvisamente diventato sempre più estraneo al nostro essere uomini in carne ed ossa, un mondo sempre più virtualizzato, digitalizzato e astratto, la cui rappresentazione, perciò, non può che procedere di pari passo con la sua sempre maggiore assenza di realtà.
“Il mondo moderno è il mondo dei simulacri”, scriveva anni fa Gilles Deleuze nella prefazione del suo celebre saggio Differenza e ripetizione. “Il pensiero moderno”, continuava il filosofo francese, “nasce dal fallimento della rappresentazione, come dalla perdita delle identità e dalla scoperta di tutte le forze che agiscono sotto la rappresentazione dell’identico”. Il lavoro di Shinya Sakurai si muove su un crinale assai sottile e instabile, che vede nei due opposti concetti di iconico e aniconico i due poli entro cui l’artista lavora, e in quello di “ripetizione differente”, teorizzata proprio da Deleuze, una delle sue chiavi di lettura più interessanti e forse più calzanti. L’artista ha infatti scelto di agire su un piano di sostanziale non-rappresentazione, pur con degli elementi simbolici e iconici che periodicamente ritornano, alternandosi sotto la struttura del lavoro, e facendo inaspettatamente capolino qua e là sotto la forma astratta, come simboli matematici nascosti all’interno di una struttura geometrica.
Non sono paesaggi, quelli di Shinya Sakurai, né rappresentazioni iconiche del mondo o dell’universo, né ritratti dell’uomo che vi abita: e tuttavia, anch’essi ci parlano del mondo, o per meglio dire del punto di vista dell’artista sul mondo.
Nella cultura orientale, la tradizione del paesaggio è fortemente intrecciata alla filosofia zen, e la sua rappresentazione è una diretta emanazione della riflessione filosofica sull’illusorietà e mutevolezza del reale. Pur rappresentandone la mutevolezza, il paesaggio orientale, così com’è storicamente rappresentato in pittura, da una parte è carico di trascendenza, e dall’altra appare quasi immutabile, eterno: quasi a rappresentare l’eterna dualità tra permanenza e impermanenza. In Occidente, invece, la rappresentazione del paesaggio è legata alla storia, e al modo in cui la storia ne ha via via modellato la superficie.
Shinya Sakurai, originario di Hiroshima, vive da molti anni in Italia, e il suo sguardo sull’arte si è così sdoppiato, diventando binario: da una parte l’influenza della cultura e dell’immaginario orientali, che costituiscono le sue radici e la sua base di partenza originaria, dall’altra l’iconografia occidentale, e in particolare italiana, che tende sempre più a mescolarsi con quella orientale. Ma non sono tanto i dettagli esteriori, di taglio prettamente culturale o sociologico, a interessarlo – i comportamenti, le tradizioni, gli usi, la stessa iconografia artistica o religiosa, le forme della rappresentazione del paesaggio o dell’uomo nell’una o nell’altra cultura –, quanto piuttosto il diverso punto di vista sulle due diverse culture. È, insomma, l’occhio di chi guarda, la sua capacità (come insegna la fisica quantistica) di influenzare ciò che si sta osservando, ad attrarre la sua attenzione di artista. “Dopo essermi trasferito in Italia”, spiega infatti l’artista, “ho cominciato a vivere a Torino. Quello che ho percepito come insolito, da allora, è stata la disconnessione o quello che potremmo chiamare il divario esistente tra l’immagine europea del Giappone e di Hiroshima, mia città natale, e quella che invece ne avevo io. Era ciò di cui non ero mai stato veramente consapevole quando vivevo in Giappone, non riuscendo a immaginare che i punti di vista dal di dentro e dal di fuori avrebbero fatto una tale differenza in termini di percezione. Cercare di rendere evidenti queste diverse percezioni è stato da allora il nucleo principale del mio lavoro artistico”.
Ora, in che cosa è consistito il suo puntare sulle differenze di percezione tra l’una e l’altra cultura? Come in un romanzo a chiave, Shinya Sakurai ha occultato i suoi riferimenti all’interno del linguaggio. Nulla, apparentemente, rende il suo lavoro dichiaratamente “occidentale” piuttosto che “orientale”: i suoi quadri, all’apparenza pop, apparentemente sganciati da qualsivoglia tipo di rappresentazione, e apparentemente scevri da riferimenti alla cultura da cui l’artista proviene, sono in realtà ricchi di riferimenti incrociati, che per l’appunto, come in un romanzo a chiave, vanno rintracciati sotto la serrata griglia del linguaggio astratto. Cuori, piccole croci, forme elementari costantemente ripetute, come a formare una griglia simbolica del mondo; e, sotto a tutto, una tecnica antichissima, quella dello shibori, in auge intorno all’era Edo, che consiste nel legare o manipolare il tessuto e immergerlo in un bagno di tintura che crea una sorta di fantasia astratta. Sono questi gli apparentemente semplici elementi di cui è costituita la trama pittorica di Sakurai. È il linguaggio del contemporaneo, linguaggio ermetico e astratto per eccellenza, che sostituisce in questo modo il linguaggio originario, quello che, secondo il filosofo Michel Foucault, nella sua “somiglianza alle cose”, aveva “costituito l’originaria ragion d’essere” del linguaggio stesso: “Ma se il linguaggio non somiglia più immediatamente alle cose che nomina”, scriveva Foucault in Le parole e le cose, “non è per questo separato dal mondo; continua, sotto forme diverse, ad essere il luogo delle rivelazioni e ad appartenere allo spazio in cui la verità, a un tempo, si manifesta e si enuncia”. Ecco allora che il lavoro dell’artista diventa esso stesso creazione di un mondo. Il mondo di Sakurai ci si svela infatti proprio grazie alla specificità del suo linguaggio: un linguaggio che, pur non “somigliando più immediatamente alle cose che nomina”, ne è ugualmente, per metafora, lo specchio perfetto, poiché diventa appunto il “luogo delle rivelazioni”, lo spazio “in cui la verità si manifesta”. Una verità simbolica, non dichiarata per immagini descrittive o ad imitazione del mondo, ma per metafora sottile, profonda e sotterranea, per analogia antica, per spostamento di piani e di significati reconditi. Al di là delle simbologie che si possono rintracciare qua e là lungo le coloratissime geometrie di cui sono costituite le tele dell’artista, è un fatto che quella di Sakurai sia fondamentalmente un atto di riordinazione simbolica del mondo, attraverso un processo di decontestualizzazione delle immagini e dei simboli dal loro significato originario, e di avvicinamento tra realtà naturale e mondo artificiale.
Quello di Sakurai appare così come un ragionamento, fortemente stilizzato e particolarmente ricco dal punto di vista cromatico, sulle strutture sottili di cui è intessuto il mondo fenomenico, ravvivato da una corrente di energia primitiva e algoritmica, in un complesso gioco di colori vivi, acidi, fortemente contrastati e magicamente armonizzati tra di loro, che ne aumentano il potere di straniamento e di forza simbolica.